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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2023 - Anno: 29 - Numero: 3 - Pagina: 13 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

LA RISCOPERTA DELL’ASTRAGALO “U CÌCIARU”

Letture: 691               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

A zonzo, senza fretta, per le vie di Vibo, in attesa che si facesse l’ora fissata per il ritiro del
risultato di analisi cliniche, mi trovo davanti il palazzo dei baroni Paparo, e quindi un salto
all’indietro di cinquant’anni, quando fattore di fiducia della famiglia baronale era il mio nonno
paterno, trasferito allo scopo da Badolato a Stefanàconi. E a fargli compagnia suo figlio Anto
nio, mio padre (1900-1944), che ha imparato il mestiere di stagnino proprio aVibo, importante
cittadina calabrese che tra l’altro vantava la presenza di valenti artigiani del settore. Ed ecco,
poco più in là, la porta aperta di una bottega di stagnino al lavoro. Mi avvicino con discrezione,
lo contatto, e conversiamo un poco di oggetti del suo mestiere, non senza sua meraviglia per
lo strano mio contatto, che io, visibilmente emozionato, subito chiarisco rivelandomi figlio di
stagnino che aveva appreso l’arte a Vibo, forse proprio da lui, a giudicare dalla sua età piutto
sto avanzata.
Lasciato l’anziano occhialuto artigiano, uno degli ultimi di questo dinamico mondo in fret
tolosa trasformazione, continuo a passeggiare, e sulla parete di un palazzetto cittadino leggo
la scritta “Museo”. Già consapevole -cinquant’anni fa- dell’importanza culturale e quindi for
mativa dei Musei, anche perché ne avevo visitati non pochi nel corso degli anni di Collegio, a
Roma, vi entro senza indugio e mi ritrovo in una grande sala dove numerose erano le tessere
musive esposte al pubblico, con accanto il cartello esplicativo. Soffermandomi, un po’ qua un
po’ là, m’imbatto in una teca di vetro contenente frammenti di ossa umane: sul cartello leggo:
“tomba di bambino della Magna Grecia”. Nessuna meraviglia di una tale presenza, visto che
la città, Ipponion, era stata fondata proprio dai magnogreci Locresi. Incuriosito osservo i vari
elementi dentro la teca e vi scorgo un “cìciaru”, che io conoscevo come osso non umano ma
di maiale, perché a Badolato tutti i ragazzi a carnevale -unico periodo dell’anno in cui si ucci
deva il suino per farne conserve- cercavano di procurarsi quell’ossicino che, ben pulito, veniva
frequentemente usato per giocare in gruppo “ahṛu cìciaru”. Ma che ci faceva quell’osso tra
i resti mortali di un bambino di epoca magnogreca? Probabilmente, penso, quell’ossicino era
stato giocattolo del bimbo, per cui, come usava in passato, e l’usanza non è ancora del tutto
scomparsa, è stato messo nella tomba perché lo portasse con sé nel mondo di là.. Per verifica
re la bontà della mia supposizione mi rivolgo ai due impiegati che conversavano al bancone
d’ingresso. Vengono con me alla teca, indico l’osso
“estraneo” che loro osservano scusandosi di non avere
il registro per cercare la risposta alla mia domanda.
Passano intanto gli anni, e mi ritrovo un giorno con
degli amici al Museo di Reggio Calabria: su due gran
di piatti di grezza terracotta -a Badolato erano detti
piatti “tarantini”e a pranzo e a cena venivano messi al
centro del tavolo perché vi intingessero tutti i membri
della famiglia- ci vedo centinaia di quegli ossicini, e
mi si rafforza l’idea che si trattasse di giocattoli messi
nelle tombe dei bambini che li avevano posseduti.
Quando mi dedicavo non poco a leggere libri e
giornali, favorito dalla capacità visiva ormai scomparsa, mi è capitata tra le mani una rivista con una pagina su cui era riprodotto il dipinto del
“gioco degli astragali”, di Artista ateniese, ritrovato a Ercolano. Per anni e anni ho conservato
quella pagina di giornale, insieme alla serie di “cìciari” che nel frattempo ho realizzato, con
perseveranza quasi maniacale: dall’astragalo del capretto a quello di una vecchia vacca, con in
mezzo altro, di maiali, di varie grandezze.
Quel gioco antico, per bambini e per adulti, e forse un po’ magico, quel dipinto, e la storia
che vi ruota intorno, oggi ha trovato una degna collocazione: illustra la copertina di Come gio
cavamo, di Mario Ruggero Gallelli, il diciottesimo libro de “La Radice”, stampato nel luglio e
presentato subito dopo, il 17 agosto 2023, alla Comunità badolatese allargata.
Vincenzo Squillacioti


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